Lavori di Manutenzione Straordinaria ed  Adeguamento Impiantistico dei locali da destinarsi al ricevimento pubblico del Consiglio di Stato

PARTNER

Il progetto, secondo le indicazioni del bando, propone la ristrutturazione dei locali posti al piano terra ed ammezzato del Palazzetto Spada (attualmente quasi completamente dismessi, ad eccezione della biblioteca, dell’ archivio e di una porzione di uffici),  finalizzata allo spostamento degli uffici di ricezione del pubblico del Consiglio di Stato (Ufficio Ricezione Ricorsi e Ufficio Ricezione Atti), alfine di migliorare le condizioni di sicurezza complessive del Palazzo e il rispetto delle normative vigenti.

Trattandosi di un intervento su locali facenti parte di un palazzo di valenza storica, il progetto si è posto il primario obiettivo di rispettare i caratteri stilistici e tipologici del palazzo e di  ripristinare le caratteristiche morfologiche dell’impianto.

La porzione di fabbricato  oggetto  d’intervento è stata, fin dalle origini, caratterizzata da una lunga galleria destinata al passaggio di pedoni e carrozze. L’accesso da via Capo di Ferro attraverso il portale a doppia altezza (probabilmente in origine privo di porta) immetteva sul lato opposto (l’attuale cortile  interno), tramite la mediazione del portico a tre campate. Entrambi gli spazi (la galleria e il portico) risultano caratterizzati dalla doppia  altezza e dal  sistema delle volte.

L’intervento, sulla base delle suddette considerazioni, ripristinando l’unitarietà della galleria e del portico, ha individuato negli spazi a doppia altezza gli ambiti da  destinare all’accoglienza dei visitatori. Per i locali accessori è stato previsto l’utilizzo come uffici e servizi a supporto dell’ U.R.P.

L’ipotesi di riqualificazione interna degli spazi è  stata incentrata  negli interventi puntuali di seguito sinteticamente descritti:

  • Ripristino della unità morfologica del portico a tre campate, ottenuta attraverso la demolizione:
  1. della parte di solaio che, al piano ammezzato, divide in due una delle campate del portico;
  2. della parete che separa due campate dalla terza;
  3. delle pareti di tamponatura del portico.
  • Chiusura della volumetria del portico tramite l’inserimento di ampie vetrate.
  • Demolizione della muratura sottostante gli archi interni retrostanti del portico, nelle due ali laterali alla galleria di accesso  e inserimento di  porte/finestre, al fine di dare luce al profondo corpo di fabbrica.
  • Realizzazione di quattro  nuove aperture sulle murature portati, su pareti di spessore, larghezza ed altezza variabili e di 3 ampliamenti in altezza di varchi esistenti,  necessari per garantire la fruibilità degli spazi.
  • Inserimento di una nuova scala e di un elevatore, al fine di permettere l’ accessibilità agli ambienti  ubicati su differenti quote.
  • Realizzazione di nuovi 4 servizi igienici, di cui 2 (uno per piano ) per diversamente abili.
  • Migliore fruibilità degli spazi tramite la modifica delle quote di calpestio di alcuni locali (che attualmente presentano differenti quote di pavimento  (a causa di successivi interventi occorsi negli anni, dovuti, probabilmente al dislivello esistente tra via Capo di Ferro, il cortile interno e gli altri ambienti funzionalmente connessi ma facenti parte dei palazzi adiacenti)). Dalla conformazione degli spazi si è potuto ipotizzare che il solaio esistente  (realizzato su un sistema portante di volte, visibile al piano interrato) sia, attualmente, posizionato  al livello di via Capo di Ferro e che le pavimentazioni a quote superiori siano state ottenute tramite l’innalzamento del piano con materiale di riempimento. Pertanto si è progettato di rimuovere parzialmente tale materiale di riempimento, al fine di   adeguare i nuovi locali alle vigenti norme sui luoghi di lavoro, con idonee altezze e accessibilità.
  • Ridefinizione della pendenza e della lunghezza della esistente rampa della galleria con partenza da via Capo di Ferro; creazione di due nuove rampe per il collegamento dei dislivelli che, seppure in misura minore, rimarranno esistenti.
  • Restauro dei portoni in legno lungo via Capo di Ferro (con adeguamento alle maggiori altezze del portone principale e del portone della attuale biblioteca).
  • Realizzazione di una nuova vetrata di sicurezza, scorrevole automatizzata e  controllata elettronicamente con sistema ridondante (omologata per le vie di fuga), per l’accesso ai locali dell’ U.R.P.
  • Ridefinizione della galleria di accesso, ipotizzata come una passeggiata di introduzione agli Uffici del Consiglio di Stato, suscettibile di allestimenti temporanei o permanenti sulle attività dell’Ufficio o sulla storia de luoghi.

Nel rispetto dei materiali storicamente utilizzati  nel palazzo e in costruzioni simili, desumibili da documenti storici e da fonti dirette, si è confermato l’utilizzo del  lastricato in  pietra, ipotizzando l’utilizzo del travertino romano nelle due  colorazioni con le quali viene estratto nell’area tiburtina: classico e noce,  giocate in geometrie allusive alla Galleria borrominiana, confinante con l’attuale biblioteca.

Sempre in travertino sono stati progettati i rivestimenti murali dei servizi igienici fino all'altezza di 160 cm.

Il progetto di riqualificazione prevede interventi di restauro complessivo degli ambienti tramite opere di ricucitura di  elementi decorativi, mostre e cornici, da realizzare  in intonaco, rifacendosi a quelle  esistenti.

 

Se l’abitare poetico  è atto di appropriazione dei significati radunati dalle cose, occorre rivelare la “cosità delle cose”, rendere possibile il “raduno”  di terra e  cielo, mortali e divini, aprendo quel  mondo che conferisce alle cose il loro aspetto e agli esseri umani la visione di se stessi.
Il progetto persegue, dunque,  la necessità di pensare un oggetto capace di  divenire compagno di viaggio nella ricerca dei nostri desideri e dei nostri sogni, un oggetto “significante”, nel senso dato da Ungaretti alle parole  “fatto di suono…in rapporto agli echi evocati”
Un oggetto di design  è, al pari di un componimento poetico, essenzialmente linguaggio,  esplorato prevalentemente con lo sguardo.
Nell’affrontare questo tema come viaggio il pensiero si è posato sul  fiore di loto,  magnifica metafora dei processi di rigenerazione. Il loto affonda le sue radici nel fango ma risale in superficie immacolato e bellissimo. Pianta di indole vagabonda, ama spaziare attraverso il regno delle acque, diffondendo il suo profumo che emana non dai fiori ma dalle foglie.
Attraverso i secoli e le civiltà il loto ha assunto un’aura di sacralità e mistero, assurgendo a simbolo di purezza, divinità, totalità, ammaliando per le sue straordinarie caratteristiche, dalla capacità dei semi di rimanere vitali per secoli, a quelle delle foglie di non bagnarsi pur vivendo nell’acqua, grazie alla loro superficie, leggermente irregolare, coperta da un sottile strato di cera,  così vellutata da raccogliere  di notte, senza quasi sfiorarle, le gocce di rugiada,   brillanti all’ alba come perle.
Un’immagine leggera e profonda, in grado di stimolare percezioni sensoriali e associazioni psichiche, quiete e senso di benessere.
La seduta tecnicamente è costituita da un’anima in metallo rivestita da una foglia in cuoio o pelle su supporto schiumato.
I tagli evocano le nervature vegetali, permettendo il diffondersi di una trama, creando un gioco di ombre e di luce che ricorda i ritmi del fluire del tempo, lo schiudersi dei fiori alla luce del sole, il brillare delle foglie con i bagliori della luna.
Destinatari della seduta sono tutti coloro che credono nella poesia che risiede nell’uomo e nelle sue radici, nella storia e  nella cultura, in alleanza con la natura.

Project Photos

Vicenda storica

Di seguito un breve excursus storico del manufatto al fine di confrontare le scelte tecnologiche operate, le metodologie di intervento previste e le caratteristiche intrinseche del palazzo, con l’obiettivo di preservare, nel progetto attuale, le valenze e l'integrità originaria.

Palazzo Spada sorge nella zona sud del  rione “Regola”, inserito in un denso tessuto edilizio, caratterizzato da stretti vicoli e piccole piazze, con i nomi mutuati dalle  storiche botteghe e dai laboratori artigianali che, lungamente, ne sono stati parte  integrante.

La storia del palazzo ha inizio nel  1540,  quando Bartolomeo Baronino di Casale Monferrato,  già attivo nel vicino cantiere di Palazzo Farnese, lo progetta su commissione del primo proprietario, il cardinale Girolamo Capodiferro, inglobando parte di preesistenti  costruzioni.

Nella primavera del 1550 in coincidenza con l'anno giubilare, il Palazzo Capodiferro era quasi del tutto ultimato, anche relativamente ai cicli pittorici che interessano le stanze del Piano Nobile e alle stesse decorazioni in stucco che impreziosiscono la facciata e il cortile interno.

La candida  facciata rinascimentale, colma di fregi e statue, a sviluppo  orizzontale, si riallaccia nella soluzione dell'ampio basamento in bugnato, agli schemi tipologici del Bramante, rimandando, poi, nei motivi decorativi della fascia mediana al Palazzo Branconio dell’Aquila di Raffaello.

Nel cortile interno  numerosi i riferimenti simbolici  alla cultura classica, testimonianza del tentativo  del Cardinale Capodiferro di stabilire un nesso tra mondo pagano e cultura cristiana.

Nel ‘600 l’investitura di numerosi nuovi cardinali, la maggior parte non romani, alimentò notevolmente il mercato di vendita e affitto delle residenze aristocratiche necessarie al rapido e adeguato insediamento dei nuovi arrivati alla corte pontificia e incentivò la ristrutturazione e la trasformazione di blocchi edilizi all’interno di un tessuto urbano già consolidato.

L’etichetta prevedeva per la dignità cardinalizia cerimoniali molto più sofisticati che in passato e dettava le nuove regole per l’ammodernamento barocco dei palazzi: appartamenti distinti per i rami ecclesiastici e secolari della famiglia, scaloni di rappresentanza di grandezza e forme inusitate, sale di ricevimento a doppia altezza, mezzanini a vari livelli, gallerie per l’esposizione delle collezioni artistiche e antiquarie, vedute prospettiche e panoramiche, giardini con fontane e scuderie.

Considerato uno dei più bei palazzi della città, tra quelli disponibili sul mercato, con la fastosa facciata sulla via Arenula (corrispondente all’antico vicus Aesculeti) e il giardino posteriore su via Giulia, fu venduto nel 1632 da Girolamo Mignanelli, erede dei Capodiferro, al  cardinale Bernardino Spada per una somma di quarantamila scudi. Il cardinale, infatti, terminata la legazione bolognese e ottenuto il trasferimento definitivo a Roma, in cerca di una residenza all’altezza del suo status optò per l’acquisto del palazzo raccomandatogli dal fratello Virgilio “così finito, che non ci potrà porre un mattone di vantaggio, quando anche lo volesse”.

Fin dall’acquisto il  cardinale, tuttavia, si propone di ampliare e abbellire il palazzo e, nell’intervenire nella decorazione pittorica del palazzo, grazie al  gusto maturato a Bologna per le architetture dell’inganno approfondisce l’ interesse per gli aspetti scenografici delle discipline legate all’ottica e alla geometria, divenendone appassionato cultore.

L’introduzione a Roma ad opera, principalmente, di Emmanuel Maignan,  delle ricerche geometriche e prospettiche elaborate in Francia dagli allievi del prestigioso collegio gesuita La Flèche, affascinavano il Cardinale anche per le implicazioni  concettuali, sottese a una poetica del dubbio basata sugli errori della visione e sulla possibilità di sfruttarli a scopo ludico.

Nel 1641-42  Bernardino fece dipingere da Paolo Maruscelli una scena prospettica sulla parete di fondo del giardinetto segreto del palazzo, in modo che si potesse traguardare la scena dal cortile principale lungo l’asse trasversale dell’edificio.

E’ il primo passo verso la celebre colonnata prospettica.  Borromini, che compare nei documenti  a partire dal 1641 come  uno degli architetti consultati per le decorazioni,  sfruttando uno spazio retrostante, angusto e inutilizzato propone di dilatare illusionisticamente lo spazio del giardinetto verso immaginari giardini distesi sul lato opposto dell’edificio e di realizzare, in sostituzione della quadratura dipinta dal Maruscelli, una finta galleria in “prospettiva materiale”, ovvero una vera e propria prospettiva solida.

L’idea di un arco trionfale prospettico con un sole nascente dal mare dipinto sulla parete del confine orientale dell’edificio, riprodotto in uno dei primi disegni, denso di implicazioni simboliche (con   un possibile rimando alla meridiana a riflessione solare da poco realizzata nella galleria dell’ala ovest)  e, nel contempo, suggeritore di spazi illimitati, poteva intrigare Bernardino che avrebbe potuto traguardare la prospettiva dal camerone delle Udienze al piano nobile dell’ala est del palazzo.

Borromini realizzò l’ organismo colonnato a tutto tondo, inserito in un ambiente  di poco meno di nove metri, che simulava prospetticamente una galleria di circa 30 metri. L’illusione, ottenuta applicando un punto di fuga centrale con la diminuzione prospettica dell’ordine architettonico, la convergenza degli allineamenti e l’inclinazione del pavimento e della volte  a botte, era resa ancora più efficace dallo scaglionamento nello spazio di tre gruppi di colonne, inserite come quinte progressive tra camere di luce nascoste, e dal fondale dipinto a finta vegetazione. L’opera finale fu il risultato di un lavoro di équipe con Borromini architetto, il matematico agostiniano Giovanni Maria Bitonto, consulente prospettico e Francesco Righi, assistente al cantiere. Il cardinale, entusiasta, dedicò all’opera un’ epigramma morale che alludeva all’inganno dei sensi e all’illusorietà delle grandezze terrene.

Contemporaneamente il cardinale  intraprese una serie di interventi di trasformazione che intesero, inizialmente, conferire maggiore comodità e magnificenza agli spazi preesistenti, portando gradualmente a successivi ampliamenti, volti a frazionare la residenza in appartamenti destinati ad accogliere, oltre al cardinale, il ramo secolare della famiglia, rappresentato dal nipote Orazio,  e un numero variabile di congiunti.

Tutto ciò comportò una lunga serie di progetti e lavori che, secondo il racconto particolareggiato del  fratello Virginio,  furono oggetto di innumerevoli ripensamenti da parte del cardinale, anche su  elementi già realizzati, con un approccio  caotico e un conseguente ingente spreco di denaro.

La preoccupazione del cardinale di ampliare e abbellire il palazzo  si concentra  con particolare riguardo sullo scalone d’onore, concepito come principale collegamento con il piano nobile dell’edificio ed elemento essenziale nella riorganizzazione distributiva degli ambienti e soprattutto nella rappresentazione del rango sociale.

Nel Seicento i palazzi nobiliari e cardinalizi, che fungevano anche da sedi diplomatiche, dovevano consentire attraverso la distribuzione delle stanze e dei disimpegni il rispetto di precisi compartimenti. La scala maggiore doveva assicurare il collegamento diretto all’atrio di ingresso al piano terreno, all’antisala-salone del piano superiore, favorendo così un percorso di rappresentanza, con esclusione degli altri ambienti della casa, serviti a loro volta da scale secondarie. Le esigenze del cardinale barocco prevedevano l’introduzione dell’ospite dalla scala alla sala d’udienza al piano nobile attraverso un percorso scandito da preavvisi, pause, accoglienza in cima alla rampa o direttamente nella sala a seconda del riguardo dovuto e dei reciproci ruoli.

Una anomalia di palazzo Capodiferro era costituita dal salone relegato sul retro del palazzo, in corrispondenza della facciata sul giardino. L’ambiente nobile era disimpegnato dalla galleria comunicante con un’ angusto ripiano a capo della rampa dello scalone principale attraverso un passaggio d’angolo del tutto inadeguato alla rappresentanza.

La pianta dell’edificio cinquecentesco si presentava sostanzialmente quadrata, ma con un  andamento quasi trapezoidale, dovuto all’allungamento, tipico del lotto, verso vicolo del Polverone; libera su tre lati, sul lato verso via Capodiferro presentava una perimetrazione frammentaria dovuta alla coesistenza di diverse proprietà. Come testimoniano alcune licenze concesse pochi anni dopo l’acquisto del palazzo, il cardinale desiderò subito espandersi occupando i vicoli adiacenti e appropriandosi dei lotti minori confinanti. L’architetto incaricato di seguire i lavori di adeguamento fu l’architetto Paolo Maruscelli, che mantenne il ruolo di capocantiere dal 1633 al 1649, sebbene contemporaneamente il cardinale interpellò per specifiche consulenze, oltre Borromini, anche Gianlorenzo Bernini, Girolamo Rainaldi, Vincenzo della Greca.

In questo arco di tempo Maruscelli progettò: la ristrutturazione del vestibolo d’ingresso; in seguito alla concessione di una parte del vicolo dell’Arco, l’addizione su quel lato del lungo avancorpo orientale comprendente al primo piano le attuali sale II e III della Galleria Spada; la costruzione di un ballatoio coperto all’altezza del piano nobile lungo il fianco a sud-est della galleria e della camera foderata di legno; la sistemazione decorativa del nuovo giardino segreto; l’accomodamento della casa affittata dalle monache di S. Apollonia alla marchesa Giulia Veralli, sorella di Maria, sposa del nipote Orazio Spada.

Se inizialmente Borromini, era solo uno degli architetti consultati per le decorazioni, dopo la morte di Maruscelli nel 1649, fu chiamato a prenderne il posto, e da subito incaricato dal cardinale di dare unità e simmetria al tessuto circostante e all’aggregazione dei lotti minori. Per conferir nuovo decoro alla piazza irregolare antistante la facciata risultante da alcune demolizioni, creò sulla parete laterale cieca di palazzo Ossoli una quinta scenica in linea con l’asse longitudinale del palazzo.

La progettazione delle arre incorporate verso Trinità dei Pellegrini consentì invece l’allargamento del piccolo cortile segreto sul lato sinistro dell’isolato e la creazione della galleria prospettica.

Contestualmente all’ampliamento dell’edificio su vicolo di Capodiferro, Bernardino pensò a una ulteriore espansione verso il giardino che avrebbe consentito la ridefinizione del palazzo in più porzioni residenziali quasi indipendenti, infatti,  nel 1636, le nozze del nipote Orazio con la marchesa Maria Veralli costrinsero Bernardino a condividere gli ambienti del piano nobile con gli sposi, rendendo urgenti i lavori di ampliamento.

L’etichetta prevedeva, infatti, che nei palazzi privati fosse mantenuta la scrupolosa separazione dei sessi , e quando era possibile erano predisposti appartamenti separati per le donne. L’appartamento di una nobildonna poteva essere completato da una scala nobile indipendente e da stanze riservate alle dame di compagnia normalmente locate in un’ attico  mezzanino, vicine a quelle della padrona ma allo stesso tempo appartate e isolate dal resto del palazzo. In quanto porzione individuale poteva avere anche cucine e rimesse separate. L’ampliamento di palazzo Spada nell’ala ovest, rispettando il modello di vita aristocratico previsto per le dame di rango, prevedeva il piano nobile per la signora, il piano superiore per le abitazioni particolari, il pano inferiore per le relazioni con l’esterno e per i servizi della famiglia e dei familiari.

Per Borromini costituì l’occasione di un ripensamento organico del settore del palazzo compreso fra la parete interna del cortile e il giardino.

Assecondando la forma allungata del lotto che consentiva un’estensione in senso longitudinale, Borromini disegnò, in aggiunta al blocco preesistente, un’ala perimetrale su vicolo del Polverone, simmetrica a quella realizzata da Maruscelli sul lato opposto, posta a racchiudere in successione il retrocortile e il giardino. I disegni relativi alla definizione della lunga ala trapezoidale di unione fra il blocco del palazzo e quello delle case su via Giulia dimostrano che l’accettazione dello schema simmetrico cinquecentesco avrebbe garantito la continuità fra la vecchia e la nuova struttura. Il progetto teneva conto, infatti, della volontà originaria del cardinale, già discussa in passato con Girolamo Rinaldi, di modificare il livello del giardino per diminuire la pendenza rispetto a via Giulia. E’ stato ipotizzato dall’analisi degli assi compositivi che Borromini intendeva realizzare due strutture speculari che dalla facciata posteriore arrivavano fino a via Giulia: l’una rappresentata a occidente dall’ala confinante con vicolo del Polverone; l’altra a oriente dal proseguimento della galleria. L’intento sarebbe stato rendere simmetriche le due parti del giardino tagliate dal vialone centrale.

Abbandonata la prima ipotesi di ampliamento su vicolo del Polverone con avancorpo nel giardino comprendente stalle al piano terreno e appartamento a quello superiore, Borromini elaborò nel 1657 un secondo progetto limitato allo sviluppo di un monumentale scalone ovale. L’allontanamento dell’architetto dal cantiere o un ulteriore ripensamento del cardinale determinarono la sospensione dei lavori e la loro ripresa secondo il progetto definitivo allegato al testamento di Virginio Spada.

In realtà solo una minima parte dell’ala originariamente prevista venne attuata. Lo scalone d’onore ammodernato e la nuova scala circolare comprese nell’ala ovest furono pensati per rispondere all’esigenza di distribuire quartieri separati all’interno di un singolo edificio. La differenziazione formale corrispondeva alla necessità del tempo di distinguere le scale in rapporto alla funzione: la scala monumentale collegava essenzialmente il piano terreno  al piano nobile; le scale a chiocciola favorivano in genere passaggi diretti a tutti i livelli.

L’epistolario familiare ha permesso agli storici di seguire puntualmente le travagliate vicende dello scalone d’onore, intrapresa nel 1660, quando il cardinale invocò l’aiuto di Vincenzo Della Greca e di Gianlorenzo Bernini.

La nuova configurazione si è conservata fino al 1930 allorché, per adeguamento funzionale del palazzo a sede del Consiglio di Stato, la rampa è stata nuovamente modificata e riportata alla pendenza originaria.

Il recente restauro, diretto da Mario Lolli Ghetti per conto della Soprintendenza ai Bei Ambientali e Architettonici di Roma, che ha portato al  recupero, lungo il perimetro dell’ingresso dell’antica pavimentazione in cotto ha  rappresentato, anche,  l’occasione per la pubblicazione  di una serie di contributi a cura di Roberto Cannatà, Mario Lolli Ghetti e Maria Lucrezia Vicini,  preziosi per l’approfondimento delle vicende del palazzo.

 

 

TORNA SU